ESSERE VITTIMA DI STALKING

Prima di addentrarmi nel racconto di oggi, ci tengo a dare qualche informazione più tecnica e specifica inerente al fenomeno dello stalking e degli atti persecutori. Se qualcuno di voi dovesse riconoscersi come vittima, contattate le forze dell’ordine e non sottovalutate minimamente la situazione.

Che cos’è lo stalking?

Il termine stalking (dall’inglese “to stalk”, che significa appostare, seguire, tampinare) rappresenta una

forma di aggressione messa in atto da un persecutore che irrompe in maniera ripetitiva, indesiderata e distruttiva nella vita privata di un altro individuo, causando a quest’ultimo gravi conseguenze fisiche o psicologiche.

(Maran, 2010)

Con il termine stalking ci si riferisce, quindi, ad una serie di atteggiamenti tenuti da un individuo che affligge un’altra persona, perseguitandola e generandole stati di ansia e paura, che possono arrivare a compromettere la sua quotidianità.
Questo fenomeno è caratterizzato da tre aspetti fondamentali, ovvero la presenza di un “persecutore” (o molestatore), una vittima e una relazione tra i due, caratterizzata dall’esercizio del controllo da parte dello stalker, che determina uno stato emotivo di intensa ansia e paura nella vittima.

Riporto a titolo di esempio alcuni dei possibili comportamenti messi in atto dallo stalker:

  • Comunicare continuamente mediante telefono, sms, lettere, mail a qualsiasi orario;
  • Lasciare messaggi sui social network, oppure sull’automobile, porta di casa, luogo di lavoro;
  • Pedinare la vittima;
  • Investigare su come la vittima trascorre la giornata;
  • Inviare messaggi indesiderati;
  • Diffamare o oltraggiare direttamente la vittima;
  • Danneggiare le proprietà della vittima;
  • Compiere aggressioni fisiche o sessuali nei confronti della vittima;
  • Minacciare direttamente la vittima e le persone ad essa vicine.

Dentro al corpo della vittima: la mia storia

di Valentina Russo (IG: @kinelover_)

La regola generale delle professioni di aiuto come la mia è quella di non aprire mai la propria vita e la propria dimensione emotiva ad un pubblico di potenziali pazienti. Non sarebbe professionale parlare delle proprie vicissitudini, dei propri vissuti. E’ una regola comprensibile e condivisibile, che permette non solo al professionista di tutelarsi da eventuali coinvolgimenti, ma anche di dare un’immagine solida del proprio sé lavorativo. Io, però, fatico ad essere ligia alle norme e alle convenzioni, perché credo che l’empatia sia alla base di qualunque relazione d’aiuto: il professionista non è superiore a te, non è migliore di te, bensì è una persona con strumenti e competenze che gli permettono di farti da specchio e mostrare l’altra parte di te. Personalmente, preferisco essere sostenuta da qualcuno che ha forgiato il suo lavoro anche sulle esperienze di vita e non solo imparando a memoria dei manuali.

Non so se ho deciso di raccontare la mia storia per aiutare il prossimo o me stessa, forse tutti e due. Il fatto è che quando si vive come sto vivendo io, si ha la sensazione di non avere più il controllo del proprio corpo e della propria vita. Ci si sente fragili, vulnerabili, senza strumenti di difesa, senza protezione. Poi qualche notte fa, dopo aver passato l’ennesima giornata di ansia e ore con le forze dell’odine, mentre l’insonnia mi teneva sveglia nonostante i farmaci, ho raggiunto una sorta di illuminazione: io ho un’arma!

Sono sempre stata brava con le parole: è un mondo al quale mi viene permesso l’accesso senza particolare sforzo e di questo sono grata all’Universo che mi ha voluta così. Le parole possono essere carezze o pugnalate. Le parole hanno un potere che non andrebbe mai sottovalutato: non lasciano tracce fisiche, non fanno sanguinare, ma si insinuano nelle menti e possono fluire dolcemente come miele o come pece, scivolando lungo la rete neurale, aggrappandosi lì dove devono aggrapparsi e sedimentando, nel bene e nel male.

Io sono brava con le parole e quelle di oggi saranno la mia arma verso coloro che mi stanno perseguitando, sebbene non le leggeranno mai. Non importa, perché le stai leggendo tu. E tu sei più importante. Tu potresti essere me. O magari rivedrai nelle mie parole una figlia, una sorella, un’amica, la vicina di casa. E nei cuori onesti e aperti, le parole attecchiscono meglio, perché è la brava gente che deve cambiare, non i carnefici. Loro non ne hanno le capacità: non si può chiedere ad uno scarabeo stercorario di diventare un cigno, con tutto il rispetto per lo scarabeo, ovviamente.

Scegliere di denunciare

Ad oggi non posso ancora raccontare nello specifico o parlare apertamente dei fatti, perché due mesi fa ho preso la faticosa e pesante decisione di denunciare i miei persecutori (sono due uomini che agiscono assieme) e la procura di Torino è ancora in fase di indagine. Sono trascorsi quasi due anni dall’inizio dell’incubo e spero che presto si smuova qualcosa.

Fare denuncia è un gesto che richiede una grande dose di coraggio da parte della vittima, perché significa principalmente due cose: ammettere di avere un grave problema e sentirsi esposti nel proprio intimo, nel proprio dolore. Ci si toglie una maschera pesante, alleggerisce, ma allo stesso tempo mette a nudo. Per me, la sensazione è proprio stata quella di essere spogliata di ogni abito, di ogni pudicizia davanti a persone estranee (le forze dell’ordine) e non (i familiari, i miei genitori). Quando già ti senti piccola e fragile, è davvero uno sforzo immenso rinunciare all’ultimo straccio sbrandellato di armatura che avevi calzato per difenderti, per non ammettere di avere un problema.

Come già detto, non posso ancora raccontare tutto nel dettaglio, anche se lo vorrei tanto, soprattutto per quel che riguarda i tempi giurassici della giustizia e l’assenza delle amministrazioni locali, ma arriverà quel momento e allora sì che darò fiato alle trombe. Quel che invece posso e voglio dire, oggi, è che la scelta di fare denuncia non è stata la fine di un tunnel, ma l’ingresso: sai che ne uscirai, sai che non è più tutto confuso e mischiato, che si sta tracciando una traiettoria e che in un modo o nell’altro non continuerà per sempre.

Un mio personale ringraziamento va alla Polizia di Stato che si sta occupando del mio caso con una solerzia e un’umanità meravigliosamente speciali. Si dicono spesso brutte cose sull’operato delle forze dell’ordine, ma per quanto mi concerne, la mia attuale esperienza non può che farmi apprezzare il loro lavoro e la loro sentita partecipazione al mio caso.

In effetti, io rientro in quello che viene definito Codice Rosso. Ma di cosa si tratta?

Come me, tante altre persone sono ogni giorno vittima di alcuni tipi di reato: maltrattamenti contro un familiare o un convivente, violenza sessuale (anche violenza di gruppo e violenza sui minori), stalking, revenge porn e lesioni personali gravi. Per tutelare queste vittime, è stata emanata la Legge n. 69 del 19 luglio del 2019 (meglio nota come Codice rosso), entrata in vigore il 9 agosto dello stesso anno.

Non mi è ancora chiarissimo tutto il meccanismo alla base, ma quel che ho compreso negli ultimi mesi, è che su di me è stato attivato un certo meccanismo d’urgenza. Per saperne di più rimando a questo articolo.

Per il resto, mi riservo di far passare ancora del tempo per i commenti personali riguardanti il sistema giudiziario, in quanto ad oggi non posso e non voglio esprimermi ante tempo.

La sfera emotiva di una vittima

Veniamo adesso al cuore dell’articolo, ovvero a ciò che sento maggiormente di voler trasmettere.

Anche qui, però, dedico qualche riga a informazioni statistiche importanti.

Sono state svolte diverse ricerche per valutare quali siano le conseguenze di comportamenti di stalking sulle vittime. Una delle prime è stata quella di Pathè e Mullen (1997). Nella loro ricerca, condotta su di un campione di 100 vittime di stalking australiane, emerse che queste riportavano gravi ripercussioni a livello psicologico, lavorativo e relazionale.

Il 94% riferiva di aver avuto notevoli cambiamenti nello stile di vita e nelle attività quotidiane; il 70% di aver notato una significativa diminuzione delle attività sociali; il 50% diminuiva in termini di ore o addirittura cassava la propria attività lavorativa; il 34% finiva per cambiare lavoro e il 40% residenza. Il livello di ansia aumentava nell’80% dei casi. Inoltre, molte vittime di stalking riportavano disturbi cronici del sonno (75%) e pensieri ricorrenti riguardanti l’evento traumatico (55%). Il 50% riportava sintomi dei disturbi alimentari, stanchezza, debolezza e cefalee. In una piccola parte del campione, infine, si rilevavano problemi di depersonalizzazione (38%), incremento nell’uso di alcool e nicotina (25%) e pensieri concernenti il suicidio (25%).

Anche uno studio svolto in Olanda (Kamphuis et al., 2001, 2003) su 200 vittime di stalking, ha documentato l’insorgenza di sintomi psicologici clinicamente rilevanti e, in particolare, di numerosi casi di disturbo post-traumatico da stress. La gravità dei sintomi è comparabile a quella che si riscontra nei soggetti che hanno vissuto disastri aerei, rapine a mano armata e gravi incidenti automobilistici.

Fonte: www.stateofmind.it

Mentre leggevo questo articolo e il sopracitato elenco statistico, giocavo mentalmente a “ce l’ho, non ce l’ho”.

Personalmente, so che ad un certo punto il mio sistema nervoso ha avuto un vero e proprio cedimento: sono passata dal distacco emotivo che doveva essere in qualche modo una sorta di scudo, all’insorgenza improvvisa e repentina di attacchi di panico potentissimi, che altro non erano se non il segnale che il mio corpo mi stava mandando per dirmi “ehi, così non si può andare avanti, bisogna far qualcosa”.

Sovente associamo ansia e panico a manifestazioni sgradevoli che non vorremmo provare assolutamente (ed in effetti è così), ma dimentichiamo la loro funzione di base: proteggerci e metterci in allarme. Questi stati non subentrano per farci star male, ma per spronarci a prenderci cura di noi stessi e di ciò che non funziona come dovrebbe.

Dopo i primi episodi di panico, ho cominciato ad avere serie difficoltà nella regolazione delle mie emozioni, in balia come ero di un sistema nervoso neurovegetativo che era andato in bournout: non riuscivo a mangiare, non riuscivo nemmeno a bere, provavo forti sensazioni di depersonalizzazione (cioè non mi sentivo più di abitare nella realtà del mio corpo), non dormivo ed ero preda di continue e incessanti contrazioni muscolari che coinvolgevano soprattutto glutei, gambe, mascelle e mani.

Il panico saliva su dallo stomaco, con un calore che mi faceva bruciare tutta la gabbia toracica e la schiena, quasi come se avessi delle ali di fuoco che mi laceravano la carne per uscire all’esterno. Avevo la nausea, le budella contorte e credevo di morire da un momento all’altro, motivo per il quale non riuscivo a stare nemmeno da sola in casa.

Ho passato così circa un paio di settimane dopo il primo attacco di panico, sospesa tra un corpo che voleva così tanto vivere da farmi provare persino la sensazione della morte ed un cervello terrorizzato perché aveva completamente perso il controllo. Ricordo che nemmeno la termoregolazione funzionava più a dovere. Ad esempio, se stavo sotto alle coperte troppo vestita, non iniziavo a sudare, non sentivo il bisogno di scoprirmi: semplicemente mi saliva la febbre.

Il mio lavoro concerne prevalentemente i disturbi psicosomatici e la decodifica dei sintomi, per cui è stato abbastanza immediato per me comprendere tutti i messaggi alla base: avevo retto troppo, mi ero distaccata troppo, avevo “buttato giù” troppo. Non mi ero protetta. Era arrivato il momento di ascoltarmi e svoltare.

Essendo Naturopata, ho saputo valutare la situazione in maniera oggettiva ed ho riconosciuto che in quel momento, in quella situazione, non esistevano rimedi naturali che tenessero, dunque non ho avuto (e non ho tuttora) problemi a ricercare un aiuto psicofarmacologico consistente, in accordo con il mio medico e con la terapista che mi segue. Quando potrò, ovviamente, passerò ad un rimedio preventivo e di mantenimento naturale adatto a me. Ogni cosa a suo tempo.

Questo esaurimento nervoso avveniva nel mese di novembre 2022 e mi ci è andato un mese per riprendermi quel minimo da permettermi di avere forze sufficienti per andare in caserma e sporgere denuncia.

Come sto oggi?

Ho ripreso a mangiare come prima, con qualche variazione nella ricerca compulsiva di zuccheri e cioccolato. Fumo più di un pacchetto di sigarette al giorno e mi distraggo giocando al mio videogioco preferito. Ho sempre voglia di caffè, ma mi contengo. Il bruxismo notturno è peggiorato, così come i disturbi del sonno. Seguo regolarmente una volta a settimana la psicoterapia cognitivo comportamentale e, sempre con cadenza settimanale, mi faccio trattare dallo Shiatsuka che collabora con il mio studio. L’ansia va e viene, più o meno inibita dalle benzodiazepine e il panico subentra solo quando i due molestatori si fanno vivi. Da poco ho deciso di seguire un piano alimentare redatto da una nutrizionista e, dopo anni di pigrizia, ho ricominciato un’attività fisica che cerco di eseguire con regolarità.

Ora, nel mio lavoro sono abituata per l’appunto a decodificare ogni minimo aspetto della persona e anche ciò che non sembra un sintomo, in realtà può esserlo. Dunque, adesso ti spiegherò nel dettaglio tutto ciò che si nasconde dietro ad abitudini e ad atteggiamenti situazionali. Ovviamente ognuno ha la sua personale modalità di somatizzazione e ciò che è vero per me, non lo è per altri, quindi tieni a mente che la decodifica è sempre strettamente personale.

Disturbi alimentari

Quando non riuscivo più a mangiare e a bere, non era per il desiderio di magrezza, né di morte. Il mio corpo mi stava dicendo che prima di digerire altra roba, seppur necessaria, dovevo guardare a ciò che continuavo a ingoiare con l’imbuto sul piano emotivo. Tutto va metabolizzato, dal cibo alle emozioni ed io ero preda di un’indigestione di stress a cui non guardavo per non crollare.

Nausea e disturbi del colon

Nel mio caso, erano legate alla rabbia che non lasciavo andare, né in un verso, né in un altro. Una rabbia sana è un potente motore, ma una rabbia stagnante e rancorosa può solo far male a noi stessi. Inoltre, ero spaventata dalla portata di questa emozione che avveniva in me con una potenza quasi incontrollabile. Gestire la rabbia è un passo importantissimo per chiunque, in quanto la società, soprattutto quella cristiana e occidentale, insegna che la rabbia è una cosa sgradita al mondo e figlia di qualche debolezza d’animo (ho sempre odiato la biblica frase “porgi l’altra guancia”, ma ne parleremo in un altro articolo).

Voglia di caffè, nicotina, zuccheri e cioccolato: quando i vizi nascono come terapie (disfunzionali)

La caffeina è una sostanza alcaloide stimolante, che si trova in alcuni alimenti come il caffè, le foglie della pianta del tè, nel cacao, nel guaranà e nelle bacche di mate. Con la sua azione aiuta il rilascio di adrenalina e noradrenalina, ormoni generalmente rilasciati dall’organismo in momenti di stress, che contribuiscono all’aumento della pressione arteriosa e del battito cardiaco, con effetti sul metabolismo corporeo. In pratica, questi ormoni ci preparano alla lotta o alla fuga in caso di pericolo: utilissimi se si deve essere pronti a scappare da un leone inferocito, deleteri quando la minaccia non richiede una messa in movimento concreta del corpo.

A contatto con i recettori, invece, la nicotina rilascia delle sostanze psicotrope, che agiscono attivamente sulle funzioni psichiche. Tra queste possiamo riconoscere la dopamina, che provoca nel fumatore un senso di gioia e gratificazione; le endorfine, che provocano un rilascio della tensione e una diminuzione dell’ansia; l’acetilcolina, che ha effetto eccitante sulla muscolatura e la serotonina, che migliora l’umore.

Similmente, gli zuccheri attivano un segnale che viene inviato ad una parte del cervello particolare: quella imputata alla ricompensa. In questo modo si attiva la produzione di una serie di ormoni associati alla sensazioni di benessere, uno fra tutti la dopamina.

La serotonina è un neurotrasmettitore eccitatorio che, se presente in difetto, causa una riduzione patologica dell’umore. Poiché l’assunzione di cioccolato, soprattutto fondente, aumenta la produzione di serotonina, si potrebbe definire uno “antidepressivo naturale”.

Piano alimentare e allenamento

Dopo questi primi mesi di vizi ed abitudini malsane per il mio corpo, ho sentito dentro di me il segnale di stop: non mi sono giudicata con severità, ho assecondato le mie “voglie” nocive con grande comprensione, dicendo a me stessa che se ne avevo bisogno, per un po’ andava bene, ma che avrei dovuto cogliere il momento in cui dire basta, restando in ascolto della saggezza proveniente dal mio organismo. Ammetto che ciò è arrivato solo da un paio di settimane, ma non ho indugiato oltre. Il corpo vuole muoversi? Ottimo. Il corpo vuole depurarsi, nutrirsi meglio e disintossicarsi? Grandioso. Ho un patto con me stessa e voglio rispettarlo. D’altronde, la relazione più importante che abbiamo, è proprio quella con noi stessi e, come in ogni relazione, esistono i compromessi, l’ascolto e il dialogo. In questo, ovviamente, si può essere aiutati anche dai professionisti.

Psicoterapia e Shiatsu

Per me, il percorso di psicoterapia è uno stupendo regalo che ognuno dovrebbe concedersi. Io lo accolgo con massima apertura e quel tempo me lo dedico come un profondo desiderio di conoscenza e scoperta, un po’ come un appuntamento di corteggiamento con il mio sé più autentico: sovente siamo degli sconosciuti a noi stessi, convinti di essere dei “falsi sé” che la mente conscia ha sapientemente creato. Così facendo, però, non può esserci amore per se stessi, perché non si può davvero amare qualcuno che non si conosce.

Ho scelto lo Shiatsu, invece, perché volevo ascoltarmi meglio. La mia personale esperienza in merito, mi ha condotta a vivere i trattamenti come un ascolto del corpo che avviene in maniera molto profonda: ogni tocco, ogni pressione, ogni movimento dello Shiatsuka è come una domanda che mi viene posta e per ciascuna di esse, il corpo ha una sua risposta: abbassando il volume del mentale, è incredibile come si riescano a percepire le mille parole che abitano muscoli, pelle e organi.

Il senso di colpa, la vergogna, la paura e la rabbia

Per mia indole professionale e caratteriale, sono votata all’aiuto del prossimo. Proprio questo, però, è stato il principio di relazione coi miei molestatori: ho provato ad aiutarli e sono finita con l’essere prima manipolata, poi raggirata in una costante escalation di attenzioni e, dal momento in cui mi sono tirata indietro, sono cominciate le persecuzioni, le violenze psicologiche e le minacce.

Ho passato due anni a sentirmi in colpa, perché avevo permesso che tutto ciò avvenisse. Non mi ero protetta abbastanza, non mi ero accorta in tempo di chi avevo davanti. Quando pensavo di fare denuncia, saliva in me un profondo senso di vergogna legato sia agli abusi psicologici subiti, sia al fatto che la mia professione non era stata sufficiente a farmi drizzare le antenne. Ero stata manipolata alla grande e questo faceva sì che mettessi in discussione la mia capacità lavorativa. In realtà, come già detto in precedenza, sono un essere umano prima di essere qualsiasi altra cosa e, in quel periodo, fra Covid, zone rosse, coprifuoco e quant’altro, nessuno di noi era completamente sereno e stabile.

La paura è arrivata assieme alla consapevolezza di essere finita in un inferno dal quale non intravedevo chiare vie d’uscita. E con la paura non si gioca e non si scherza, perché può portarti a diventare qualcuno che non sei o, nei migliori dei casi, l’ombra di te stesso. Ammetto che mi è capitato di uscire di casa con una mazza da baseball o un coltello in tasca, perché la paura fa fare cose così e ti suggerisce di proteggere la tua vita prima di ogni altra cosa. Questo è un pericolo, però, perché se fossi stata aggredita proprio in quei momenti, non so se avrei saputo evitare di utilizzare le armi improprie che avevo con me. Tenerle vicine, o in tasca, mi dava la sensazione di essere meno vulnerabile, ma se si fosse presentata l’occasione la mia corteccia cerebrale avrebbe potuto subire un rapimento neurale da parte dell’amigdala, spegnersi per qualche istante, e farmi agire secondo il principio di natura “mors tua, vita mea”. Principio che, per quanto spontaneo e naturale, non rispetta le leggi della società moderna.

La rabbia è cresciuta col tempo in curva di progressione lenta, ma costante che ancora non si è arrestata. Sì, sono molto arrabbiata e ho tutte le ragioni di esserlo. Ma, di nuovo, per questa parte preferirei attendere ancora un po’, dunque restate sintonizzati.

In conclusione

Non so se questo articolo possa essere servito a te o a qualcuno di tua conoscenza, ma di certo è servito a me per darmi il coraggio di uscire dall’ombra, fare una svolta e mostrarti che, dietro ad un ruolo, un blog, una pagina social, c’è sempre una persona con il suo universo di emozioni.

E se anche tu stai vivendo o hai vissuto un’esperienza simile, ricorda che vali più di coloro che perseguitano. Vali più della burocrazia. Vali più del tuo senso di colpa e della tua vergogna. Vali esattamente tutto il tuo universo.

Valentina

2 risposte a “ESSERE VITTIMA DI STALKING”

  1. Ciao Valentina ti sono grata per aver pubblicato la tua storia. Hai avuto molto coraggio e questo ti fa onore. Vedrai che pian piano riuscirai a star meglio e con l’aiuto che stai ricevendo attraverso vari canali, potrai rinascere, ritrovare te stessa.
    Ti sono vicina. Ti abbraccio.
    Iael

    Piace a 1 persona

    1. Grazie mille Iael.
      Anche io ti sono grata per aver dedicato del tempo e dell’empatia alla lettura. Sono certa che la rinascita sarà più splendente e forte che mai.. E questo è il primo passo. Un abbraccio forte.
      Valentina

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